Tutti esperti di tutto: cosa ci spinge a dire sempre la nostra online?
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Tutti esperti di tutto: cosa ci spinge a dire sempre la nostra online?

4/4/2025

Viviamo in un mondo dove ogni post sembra chiedere un’opinione. Ma perché sentiamo il bisogno di dire sempre la nostra, anche quando nessuno l’ha chiesta?

L’egocentrismo digitale e la cultura del commento

Qualche tempo fa ho pubblicato una ricetta di una torta al rabarbaro.

Era solo un momento personale, una cosa semplice, senza pretese. Eppure, i commenti non sono mancati: “troppo zucchero”, “non si fa così”, “ma sei un cuoco ora?”.
Questo piccolo episodio mi ha fatto riflettere. Non era la ricetta a suscitare reazioni, era il fatto che io l’avessi pubblicata.

In un mondo in cui tutti possiamo esprimere opinioni, ci sembra quasi un dovere farlo. Come se il valore di un contenuto non fosse più nella sua autenticità, ma nel grado in cui si allinea (o no) con le nostre idee.

Da oltre un anno e mezzo studio l’intelligenza artificiale ogni giorno. Faccio corsi in azienda, analizzo trend, uso strumenti. E una cosa che l’AI ci sta insegnando – forse senza volerlo – è che siamo diventati filtri, più che lettori o osservatori. Guardiamo i contenuti col solo scopo di reagire. E la reazione, spesso, è un commento.
Più che condividere per dialogare, commentiamo per definire noi stessi. “Io la penso così, quindi esisto”. In questo senso, il digitale ha amplificato un bisogno umano antico: essere visti, riconosciuti, ascoltati.

Gli algoritmi ci hanno educati al conflitto

Siamo stati lentamente educati a credere che ogni contenuto debba generare una reazione. I social, i motori di ricerca, le piattaforme di news: tutto è costruito per mostrarci ciò che potrebbe stimolarci, indignarci o farci sentire parte di qualcosa.
Il problema nasce quando questo meccanismo ci allontana dal senso profondo delle cose.
Oggi, se leggiamo qualcosa che non ci rappresenta, anziché passare oltre, sentiamo il bisogno di “sistemarla”. Di correggerla. O, peggio, di attaccarla.

Lavorando ogni giorno con brand e persone, vedo come anche nella comunicazione aziendale si tenda sempre più a creare contenuti polarizzanti, “per far parlare la gente”. Ma parlare non vuol dire ascoltare. Né costruire qualcosa di utile.
L’attenzione è diventata la nuova moneta, e i social sono le borse valori delle emozioni.

Commentare diventa un atto di investimento: più mi espongo, più credo di valere. Ma il rischio è che, così facendo, smettiamo di chiederci perché stiamo parlando, e iniziamo solo a contare quanti ci ascoltano.

Torniamo a osservare, senza giudicare subito

Forse dovremmo tornare a un atteggiamento più semplice. Come quando da bambini guardavamo il mondo con curiosità, prima di giudicare. Non tutto ha bisogno della nostra opinione. Non tutto ciò che ci passa davanti va trasformato in un dibattito.
A volte, basta osservare. Respirare. E lasciare che un contenuto sia solo… un contenuto.
Questo non significa essere passivi, ma attivi in modo diverso. Significa scegliere dove mettere davvero la nostra attenzione, e soprattutto, il nostro rispetto.

In un’epoca in cui l’intelligenza artificiale scrive, disegna, crea… la vera differenza la fa ancora l’essere umano. E l’essere umano ha qualcosa che le macchine non avranno mai: empatia, ascolto, sensibilità.
Ogni giorno, nel mio lavoro, cerco di non perdere di vista questo. Lo ricordo a me stesso e alle aziende con cui collaboro: prima di comunicare, ascolta. Prima di commentare, rifletti.
Perché forse, la vera rivoluzione digitale comincia dal nostro silenzio.